Mi chiamano Medusa. Serpenti scomposti i miei capelli, pronti ad uccidere chiunque osi scampare alla mia vista. Il grigio è il mio colore, perché il cielo mi ferisce. Son fatta per rimanere sola, oppure, per fare della cecità la mia virtù.
In un tempo lontano proteggevo, custodivo e, ricambiata, amavo. E concedevo solo al grande amore l’ingresso nel labirinto del mio cuore, disposta a giocare coi miei limiti, pronta a sincronizzare con lui il ritmo del respiro, a farmi scandire l’anima, che allora anche io avevo. Avrei fatto di tutto per passione e, ingenua, credevo nelle storie a lieto fine, fantasticando su quel che il fato mi avrebbe riservato.
Ciò che desideravo era osservare e passare inosservata. Invece, fui notata. Non potei nulla contro la soverchiante forza che mi prese, il cui brutale gesto cancellò i miei sogni in un momento, strappandomi dal petto la tenerezza in boccio, lasciando fuoriuscire le radici, poi trasformate in spine e rovi.
La vendetta di colei che ingiustamente mi colpì per gelosia aggiunse il pietrificante orrore, destinandomi a eterna solitudine nell’oscurità di un antro impervio, dispersa nell’oblio, senza altra scelta. Così divenni vittima due volte, a causa di incolpevole bellezza.
Una furia ferina mi dilania, sempre più affamata col crescere della mia fragilità per la violenza antica, in un circolo perverso che di nuova violenza si alimenta. Ma nell’essenza soffro. La mia ferita è ustione che dall’interno erode e non guarisce. Mi inghiotte la tristezza per l’iniqua sorte, cauterizzando gradualmente le emozioni. Ardo di fuoco greco che nessuno ha il potere di placare. E, impotente contro ogni fibra del mio scellerato corpo, vedo me stessa brandire lo sguardo con sanguinaria precisione, per assegnare sempre e solo morte. Due me, ma una sola, sempre la stessa, a prevalere, all’altra restando soltanto pesanti pensieri intrisi di un pianto inconsolabile.
Così straziata, urlo dentro e fuori di me per la condanna a vivere senza più esser figlia, sorella, madre, compagna amata, guardata e, con desiderio passionale, ricambiata. Avrei voluto poter amare ancora, serrare queste mie orbite funeste e con dita incerte percorrere il viso del mio caro, sfiorarne le linee spesse della fronte e indovinarne l’espressione, ora accigliata, ora stupita. Passare delicatamente i palmi delle mani sopra agli occhi per sentirne le ciglia solleticarmeli leggere ad ogni battito, come due farfalle, immaginando la profondità di quello sguardo. E, scivolando lenta, carezzarne il profilo per raccoglierlo nelle mani unite, come a volerne catturare il respiro in una coppa e respirarlo, inseguendo poi i movimenti delle guance per arrivare al mento aguzzo, contrastante con la linea morbida delle labbra indecifrabili. Rilievi, incavi ed ombre così cari alle mie dita disperate che avrebbero pregato per avere il permesso di toccarli una sola, ultima volta, per poter credere che esistesse anche per me il permesso di gioire.
“Scappate, fuggite lontano dal mio incontro, voi umani che ancora potete guardare e bramare e possedere, perché ogni desiderio carnale nasce, non visto, dietro agli occhi! La vita è un attimo, e l’istante dopo è già polvere di pietra…”
Allora pensai di richiamare a me la morte guardandomi allo specchio, e liberarmi di tale maleficio.
“Quel sussulto era reale, o apparteneva al sogno? Era concreto, o solamente un’illusione? … così vero da sembrare finto, tanto forte da spaccare in due, talmente affilato da uccidere domani…”
Credetti di riuscire nell’intento, ma il mio sguardo non mi pietrificò e la fine tanto attesa non mi colse. Scoprii che non mi era dato di lasciare da sola questo mondo. E mi convinsi a mai più desiderare la salvezza, tanto mostruoso mi era parso il mio riflesso: una condanna a una mortifera, mortale lunga vita, senza una via d’uscita.
“Non c’e un punto sano in me. Fuori, dentro, ormai dovunque tocchi sanguino. E maledico la mia incapacità di amare e non amare, la paura di non farmi capire e di lasciare trapelare, il timore di perdere e di sentirmi persa senza più suscitar terrore. Così resto qui, ferma, immobile, sperando che lo struggimento passi e, nel contempo, che rimanga. Perché, malgrado tutto, soffrire è meglio che morire senza…”
Solo una mente acuta può ferirmi, soltanto un uomo astuto può annientarmi. Io so che esiste, me lo ha svelato un sogno. Nelle sue mani affiderò la fine, perché per lui diventi un nuovo inizio. La sua vittoria sarà per me sollievo, e la sua gloria la mia liberazione. Per lui varrò la pena che so dare. Non è una scelta. È ciò che mi rimane.
Di tal visione l’epilogo vi narro (ché a quello mi protendo con attesa) e, del futuro, il mio finale afflato in cui io parlo con serena posa:
«Sono Medusa, ridotta a innocua spoglia. Non ricordavo l’altezza delle nubi, né quanto gli umani fossero di carne… Ma in questo lungo attimo di morte, a faccia insù, vista a mia volta, vedo. E porterò negli occhi sempre impresse tutta l’immensità di questo cielo e la vulnerabilità di chi ho amato».